Il Presidente degli USA, Donald Trump, ha dichiarato di voler ritirare gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima, firmato da 195 Paesi della COP21 il 12 dicembre 2015.
Gli impegni presi nell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, infatti, sarebbero tanto gravosi per l’economica statunitense da comportarne un ritiro quasi immediato, nella speranza di una contestuale crescita occupazionale ed economica dell’America. Paradossalmente, tuttavia, l’America risulta il primo produttore di gas a effetto serra a livello mondiale.
A prescindere dai risvolti pratici della richiesta del Presidente Trump (secondo l’Accordo stesso, infatti, tale ritiro non potrà avvenire prima di 3 anni dall’entrata in vigore dello stesso), si è molto parlato della moralità di tale scelta ma non, in concreto, delle conseguenze pratiche a livello giuridico della stessa.
Quale tipo di accordo è, infatti, quello che hanno firmato gli Stati durante la Conferenza di Parigi?
E, soprattutto, quali tipi di rischi, in concreto, dobbiamo aspettarci dal cambiamento climatico imminente?
Una delle analisi più conosciute e complete sugli scenari futuri del nostro Pianeta è stata elaborata dal giornalista e attivista britannico Mark Lynas, il quale, nel suo libro “Sei Gradi”, riporta i cambiamenti concreti sia territoriali che climatici che l’aumento della temperatura terrestre dovrebbe causare.
Per ogni grado, l’autore racconta le problematiche che dovranno esser affrontate, dimostrandosi un precursore di quegli impegni che vedono attualmente coinvolte le politiche degli Stati.
Nello specifico, infatti, se la temperatura terrestre si alzasse di un solo grado in più, ciò comporterebbe la scomparsa dei ghiacciai e di buona parte delle barriere coralline. Con un aumento di tre gradi si giungerebbe alla distruzione totale della foresta amazzonica in seguito a incendi e siccità, mentre in Europa si giungerebbe alle stesse temperature ora presenti in Medio Oriente o in Nord Africa. Cinque gradi, al di sopra della temperatura attuale, causerebbero la migrazione in massa di milioni di persone impossibilitate a vivere nelle aree in cui vivevano, fino alla scomparsa di quasi tutte le forme di vita al sopraggiungere di un aumento della temperatura a 6 gradi.
La conferma di questi dati ha comportato un allarme generale a livello mondiale che, tuttavia, non è riuscito ancora a vincolare a livello giuridico tutti gli Stati con una disciplina normativa che non conceda più proroghe come, al contrario, è già accaduto con il Protocollo di Kyoto.
Secondo il Quinto Rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), infatti, entro il 2050 più di metà dell’energia del pianeta dovrà essere prodotta da fonti a basse emissioni di inquinanti atmosferici, mentre i combustibili fossili dovranno completamente essere eliminati come fonte di energia entro il 2100. Questa riduzione è assolutamente necessaria per limitare a 2°C l’incremento di temperatura sulla Terra nel corso dei prossimi cento anni. Se queste indicazioni non saranno seguite, <<le continue emissioni di gas serra causeranno un ulteriore riscaldamento e cambiamenti di lunga durata in tutte le componenti del sistema climatico, aumentando la possibilità di severe, pervasive e irreversibili conseguenze per l’umanità e per l’ecosistema>>.
Le uniche soluzioni per raggiungere gli obiettivi fissati nel rapporto, sarebbero quelle di preservare le riserve di combustibili fossili sottoterra o sviluppare tecnologie in grado di “catturare” le emissioni di gas serra. Considerato, tuttavia, che tali tecnologie non sono state ancora sviluppate in maniera efficace, l’utilizzo di fonti di energie rinnovabili o a basse emissioni sembrerebbe l’unica soluzione a breve termine.
Un altro documento dell’IPCC, risalente al settembre 2013, evidenzia, inoltre, che esiste il 95 per cento di probabilità che il riscaldamento globale sia stato causato dall’uomo a dispetto di quella parte di opinione politica e scientifica che vedrebbe nel riscaldamento globale una necessaria e immodificabile fase del Pianeta, coincidente con altre fasi storiche di eguale se non peggiore portata.
Realisticamente, tuttavia, non si può richiedere un intervento immediato da parte degli Stati: la conversione degli impianti di energia, da fossile a rinnovabile, esige comunque un consistente tempo di realizzazione. Senza considerare che la materia delle energie rinnovabili si interseca con quella dell’ambiente e dell’energia, creando problematiche di tipo interpretativo afferenti all’allocazione delle competenze in capo ai governi centrali o a quelli locali che necessitano, quindi, di trovare soluzioni certe e non affrettate.
Sulla base dei dati scientifici riportati, tuttavia, ci si aspetterebbe una programmazione più dettagliata, stringente e, soprattutto, vincolante almeno degli impegni futuri a livello internazionale, comunitario e nazionale.
Sul piano internazionale, infatti, la maggior parte degli interventi realizzati fino a oggi si sono sviluppati in seguito a esigenze concrete degli Stati in un’ottica prima di regolazione delle risorse naturali e, in seguito, di moderazione del loro sfruttamento.
Un vero interesse rispetto a una regolazione più stringente sul risparmio delle risorse energetiche e sulla ricerca di fonti alternative a quelle fossili, infatti, è sorta solo in seguito alle grandi crisi energetiche internazionali degli anni Settanta, che hanno evidenziato l’esigenza di una seppur parziale autosufficienza energetica degli Stati e di una sensibilizzazione maggiore rispetto alla tutela dell’ambiente.
Resta il fatto che, a livello internazionale, la problematica attorno alle energie rinnovabili si è sviluppata in un’ottica antropocentrica, non essendo stato previsto un imminente esaurimento delle risorse fossili. Ma è proprio per tale angolo di visuale che la maggior parte degli interventi a livello internazionale sono di tipo giuridicamente non vincolante come, tra tutti, la Dichiarazione di Stoccolma che recava, tra i vari meriti, anche quello di aver introdotto, seppur come principio generale, l’esigenza di mantenere, ristabilire e migliorare la capacità della Terra di produrre risorse rinnovabili essenziali.
Per quanto aventi natura di strumenti di soft law, tuttavia, gli atti che seguiranno la Dichiarazione di Stoccolma recheranno il merito di coadiuvare, a livello di sensibilizzazione politica, la causa energetica internazionale ma bisognerà attendere fino agli anni Novanta per ottenere un primo accordo giuridicamente vincolante per gli Stati firmatari con la Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 e l’annesso Protocollo di Kyoto del 1997 che, tuttavia, non essendo stato rispettato nei suoi programmi, richiederà un successivo rinnovo, avvenuto con il cosiddetto emendamento di Doha, approvato dalla diciottesima Conferenza delle parti di Doha (Quatar) nel 2012, con un secondo periodo di impegni (2013-2020).
La stessa Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici (COP 21), infine, svoltasi a cavallo tra novembre e dicembre 2015, non ha di fatto prodotto quel tanto atteso <<Accordo internazionale in grado di sostituire il Protocollo di Kyoto>> e di rendere più stringenti i limiti di emissioni di gas a effetto serra in capo agli Stati firmatari. Fallimentare, infatti, risulta la mancanza di qualsiasi obbligo giuridico in capo agli Stati rispetto alle tempistiche e alle azioni da intraprendere per il contenimento delle emissioni di gas a effetto serra o la conversione degli impianti di sfruttamento delle energie da fossili a rinnovabili.
Sembrerebbe, infatti, che soprattutto gli Stati produttori di petrolio si siano opposti sia alla previsione di una data certa di inizio dei “lavori” e sia alla vincolatività di un cambiamento energetico a breve termine che avrebbe limitato la dipendenza dai combustibili fossili a favore di un’energia pulita e rinnovabile. Ulteriori questioni, inoltre, sono state sollevate proprio da quegli Stati in via di sviluppo che resistono alle energie rinnovabili, sebbene rappresentino la soluzione più percorribile nei paesi nei quali non esiste ancora un accesso omogeneo all’elettricità, soprattutto per la difficoltà economica a usufruire di tali risorse.
L’Accordo di Parigi, in definitiva, pur prevedendo, come obiettivi principali, il mantenimento del riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi (con l’impegno a non aumentarlo oltre un grado e mezzo), il sostegno economico annuale nei confronti dei Paesi in via di sviluppo nello sfruttamento di energie non inquinanti, l’aggiornamento quinquennale dei progressi ottenuti e, soprattutto, l’eliminazione progressiva dei gas a effetto serra a favore di energie non inquinanti, non ha comportato un cambiamento effettivo degli impegni globali in quanto privo di vincolatività giuridica.
Non meraviglia, del resto, malgrado il maggior coinvolgimento degli Stati nelle tematiche afferenti al cambiamento climatico, che la realizzazione di un accordo tanto invasivo delle capacità economiche di ogni Stato sia quasi del tutto impossibile da realizzare in un periodo nel quale, secondo opinione di buona parte della dottrina, è appena cominciata un’opera di informazione sociale che renda lo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili accettato e favorito rispetto alle fossili.
La Conferenza di Parigi, quindi, si è conclusa, sostanzialmente, in una nuova dichiarazione di intenti e di programmi futuri senza neanche la fissazione di una data certa per l’inizio delle politiche a favore del contenimento del cambiamento climatico. Alle energie rinnovabili, inoltre, è stato dedicato solo un paragrafo tra le premesse in merito ai nuovi impianti da istallare nei Paesi in via di sviluppo.
Per tali ragioni, parte della dottrina sostiene che fintanto che la stessa popolazione continuerà a tollerare comportamenti non rispettosi delle precauzioni sul cambiamento climatico e sull’ambiente, gli Stati continueranno a procrastinare le misure di urgenza che già, in realtà, sarebbero da attuare, facendo leva sulla scarna informazione e conoscenza della popolazione sulle reali conseguenze del cambiamento climatico e sugli strumenti concreti utilizzati in questo momento per il suo contenimento.
Conformemente a tale impostazione, la stessa Commissione dell’Unione Europea ha espresso un favor (nel Libro Verde del 29 giugno 2007 – Adattamento ai cambiamenti climatici) nei confronti delle iniziative regionali e locali nella sensibilizzazione e nell’adattamento al cambiamento climatico della popolazione.
Secondo la Commissione, infatti, il cambiamento dei comportamenti all’interno di una società o una collettività <<dipende in massima parte dalla consapevolezza dei problemi>>. Le entità regionali e locali, in tal senso, hanno la possibilità diretta e concreta di sensibilizzare i cittadini e i soggetti interessati rispetto all’entità e alla scala degli eventi che saranno causati dal cambiamento climatico in un vicino futuro. Il favor della Commissione è stato abbracciato anche da parte della dottrina che considera la sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema de quo una delle soluzioni concretamente auspicabili e in grado di condizionare gli stessi Governi.
Da ultimo, un gruppo di ricercatori dell’Università di Washington, ha pubblicato su Nature Climate Change le previsioni del riscaldamento globale per il 2100: le possibilità di realizzare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sarebbero solo dell’1%. Il problema principale parrebbe la scelta di “contenere o ridurre” le emissioni rispetto a quella di implementare e sviluppare nuove forme di sfruttamento di energie non inquinanti.
Di fronte a tali scenari non si può che sperare che interventi più celeri e incisivi vengano intrapresi per quanto, realisticamente, data la difficoltà di un accordo vincolante tra gli stessi Stati, la situazione climatica globale appare piuttosto critica e di difficile soluzione.